Dopo più di 20 anni, il partito di Erdogan ha perso città, preferenze e consensi. Ora l’opposizione kemalista punta a governare il Paese
Il Presidente turco Erdogan l’aveva detto: «Chi governa Istanbul governa la Turchia». E aveva perfettamente ragione, perché Istanbul conta più di 15 mln di abitanti, su una popolazione complessiva nazionale di 85 milioni. Dunque, il 18% dei turchi vive in una sola città, che non è solo densamente popolata e dalla storia millenaria, ma è anche un centro strategico ed economico bagnato dal mar Nero e dalle acque del Bosforo.
La Turchia, in fin dei conti, è un Paese senza eguali, giovane, con una età media di 34 anni (in Italia è circa 46 anni), dove convivono curdi, cristiani, siriani, ebrei e musulmani. È membro della NATO, con un forte spinta a ritagliarsi un ruolo di primo piano nel contesto internazionale, talvolta con posizioni ambigue e strategie criticabili. È, giocoforza, anche rifugio per qualche fondamentalista, tra cui un altro cassiere dello Stato Islamico-Khorasan, che ha recentemente transitato dalla Turchia per i propri traffici illeciti.
Alle recenti comunali, il Sultano ha clamorosamente fallito nel suo intento di promuovere i candidati del suo stesso partito (Partito della Giustizia e Sviluppo, AKP).
Erdogan, forse stanco, ha quasi 70 anni e da più di 20 governa il Paese, prima come Capo di Governo, ora come Capo di Stato, con un Partito – l’Akp – che ha macinato consensi e preferenze in larga parte della Turchia. E che ora ha visto scemare quell’ampio consenso in molte città del Paese, tra cui Istanbul e Ankara. Hanno votato 61 milioni di turchi, residenti in più di 80 comuni.
L’opposizione, rappresentata dal sindaco di Istanbul Imamoglu, si è detta estremamente soddisfatta: «Ha vinto la democrazia, è finita l’era di un uomo solo al comando». Imamoglu ha ottenuto più del 50% dei consensi vedendosi riconfermato nel suo ruolo di primo cittadino; si è goduto la vittoria lasciandosi coccolare dal bagno di folla con cui ha festeggiato la sua riconferma. Perché ora Imamoglu è parte del suo popolo, forse attratto dal suo stile semplice ma non banale, che trascende i formalismi del vestiario elegante e dei canoni ortodossi dello stile politico. È la popolazione stessa che, durante i festeggiamenti, gli chiede di levarsi giacca e cravatta. Imamoglu esegue, perché al centro della sua agenda elettorale c’è proprio il popolo che lo ha votato.
La folla ha riempito le strade, festeggiando “calcisticamente” una vittoria elettorale epocale.
In Turchia la democrazia è viva. Erdogan è il primo che ne riconosce l’essenza, mettendo da parte qualche opaca velleità anti-costituzionale per rimanere dov’è, in stile Putin o Xi Jinping. Molto belle, in questo senso, le sue dichiarazioni alla stampa: «C’è del buono in tutto ciò che accade, il popolo ha preso la sua decisione».
In fin dei conti, il Sultano ha perso la tornata elettorale ma il consenso popolare non gli manca. Molti elettori lo definiscono il miglior Governante dai tempi di Kemal Ataturk. Ora nasce un’altra storia, forse un’altra Turchia, in cui l’obbiettivo della minoranza è prendersi il Paese.